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Nel Lodigiano fra Serio Adda e Muzza (05/08/2007)
Gita organizzata da Vinicio Bevilacqua e Pietro Soprani. Foto di Vinicio Bevilacqua (con commento), Carlo Porta e Paolo Pacca (con cronistoria).
«La gita sebbene improvvisata è stata bella e meno lunga del previsto. Abbiamo trovato tante e belle ciclabili. La richiesta no brontoloni è stata soddisfatta e nonostante qualche piccolo intoppo tutto è potuto filare liscio con il massimo divertimento, Grazie a tutti da parte dell'imprevedibile conduttore.»
Vinicio
I nevrotici non vanno in bicicletta
5 agosto. Le sette del mattino. La giornata si preannuncia bella, calda e asciutta sotto il cielo di Lombardia che, come tutti sappiamo, è così bello quando è bello. Milano ha un volto quasi umano, liberata dall’assedio dei Suv, delle Smart, delle Harley Davidson e di tutte le altre carcasse rumorose e puzzolenti che l’assediano e l’asfissiano per il resto dell’anno.
Pedalo lentamente verso la Stazione Centrale dove ci siamo dati appuntamento per una escursione verso il lodigiano.
Osservo la mia città: la bituminosa via Procaccini, il tristo restauro della Fabbrica del Vapore, i fasti catto-porno-funerari del Cimitero Monumentale, l’impudico squallore degli eterni lavori in corso sulla via Don Sturzo, la fatiscenza che già corrode i due rosei grattacieli che sovrastano la stazione di Porta Garibaldi, gli orrori di via Melchiorre Gioia e mi interrogo sulla sua identità: se sia Milano la più internazionale delle città di provincia o la più provinciale delle città internazionali. Non ho tempo di darmi risposta. Sono arrivato.
Loro sono lì. Non mi riferisco ai miei compagni di gita. Loro sono i nevrotici metropolitani, le quaranta sculture di Kurt Laurenz Metzler disseminate per tutto il piazzale antistante la stazione. Brillantissime nei loro colori accesi – gialli, verdi, rossi, arancioni, blu, neri – queste sculture interpretano in modo divertito, smagato, sarcastico, a volte irridente e a volte affettuoso, le nevrosi urbane che avvelenano la qualità della vita di tante, tante persone; di tanti di noi.
C’ è il finanziere o finanziario con la faccia nera, cattiva, probabilmente immerso in calcoli speculatori o in progetti di scalate azionarie, la signora con cagnolino travolta dalla frenesia del non far nulla, il manager rampante che corre trafelato ai suoi inutili appuntamenti, il borghese irrequieto, l’alternativo velleitario, la femminista incattivita, il maschione aggressivo, petulante e inconcludente, l’arrivato, l’arrivista, il furbo che non si vuole far fare fesso e il fesso che si crede furbo, l’anoressica arcigna, il bulimico beota e tanti altri: tutti da vedere, da osservare, da interpretare, nel tentativo di capire che cosa li inchiodi alle loro nevrosi, al loro degrado culturale, al loro destino di infelici. In qualcuno di loro – rabbrividendo di raccapriccio - ho riconosciuto quello che in altre circostanze molto probabilmente anch’io sono stato.
E allora via. Via di corsa. A pedalare. A immergersi nella bassa lodigiana tra campi di granoturco e marcite, cascinali e abbazie, a sfiorare il gorgoglio sommesso delle rogge e dei canali, a seguire il placido scorrere delle acque verdi dell’ Adda, a percorrere strade deserte e stradine sterrate lontane da ogni convulsione metropolitana, a osservare gli uccelli che mantengono prudenzialmente le distanze di sicurezza dall’uomo - non fidarsi è meglio, fanno bene.
Pedalare, pedalare, pedalare. Scappare dagli snodi delle autostrade dove gli attardati del grande esodo scalpitano ai caselli, fuggire dai telegiornali che raccontano i record dei morti sulle autostrade, gli incendi del Parco Nazionale d’Abruzzo, del Gargano, della Liguria e dell’Elba, gli intasamenti alle banchine di imbarco di Civitavecchia, Livorno, Genova e Brindisi, gli assalti barbarici agli autogrill, gli affollamenti demenziali ai valichi di frontiera, il collasso della rete ferroviaria.
Pedalare. Pedalare. Pedalare. Abbandonarsi a un trasgressivo assalto a un albero di fichi, concedersi una birra e un panino nell’ombra di un parco semideserto, immergersi nella quiete e nella soave flebilità di un canto di suore all’abbazia di Viboldone.
Via. Via. Pedalare: ché, mi sento di sostenerlo con assoluta cognizione di causa, i nevrotici non vanno in bicicletta.
Paolo Pacca
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